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CHIUSURA ESTIVA
Si comunica alla gentile clientela che in occasione delle ferie estive saremo chiusi dal 15 Agosto sera (siamo aperti a pranzo) al 9 settembre compresi.
Abbacchio o agnello?
Dal latino “ad baculum” ( = legato al bastone), dove l’animale cresceva nutrito esclusivamente col latte materno fino a raggiungere i 7 kg di peso; altri lo vogliono derivato dal verbo “abbacchiare” ( = abbattere).
A Roma, e solo a Roma, l’agnello si chiama abbacchio; e non sempre: Giggi Fazi, per esempio, lo chiama semplicemente “er fijo de la pecora”.
Nella lingua parlata, si sa, non sempre le regole sono ferree…
Resta il fatto che l’abbacchio primareccio, mezzereccio o corderesco (a seconda del periodo dell’anno in cui nasceva e quindi veniva macellato) è, fra gli ingredienti della cucina Romana, l’indiscusso principe: al forno co’ le patate, alla cacciatora, sotto forma di coratella, a scottadito…
Braciolette d'abbacchio a scottadeto
Agguanta le braciole de l’abbacchio,
schiaccia la ciccia come ‘na frittella
e attento all’osso, quello è ‘na stampella
che se la stacchi sorte un bell’ inguacchio.
Quanno che cià la forma d’un pennacchio,
co‘ sale, pepe e ojo pe’ mantella,
attizzi er fôco de la carbonella
e si te scotti non sei bôno a un cacchio.
Ce piazzi ‘na graticola, e lì sopra
ce svorti la braciola, ma stà attento,
l’ojo che smamma t’arovina l’opra!
Appena è tutta d’oro in ogni parte,
dovressi divoralla su l’istante.
È come si t’aggusti un‘opra d’arte.
(Agostino Agostini)
Carciofi alla Giudia
Er carciofo chiamato “a la giudia”,
affogato nel'ojo e rosolato
diventa come un fiore spampanato
che pare un pezzo di oreficeria.
Leggero, scrocchiarello, delicato,
è un asso in mano a la gastronomia
che quanno sorte co' 'sta sciccheria
contenta l'occhio e fa godè er palato.
Ma panzuto ce vò, tenero, fresco,
ecco perchè, de grinta, ar fruttarolo
je chiedo solo er vero “romanesco”,
mejo se “primaticcio” e “cimarolo”,
che viè un poema quanno lo ripesco
è na ghiottoneria quanno lo scolo.
(Agostino Agostini)
Coda alla vaccinara
Ai tempi dell'ex mattatoio di Testaccio, chiuso nel 1975, i vaccinari(detti anche “scortichini” -coloro che svolgevano il faticoso compito di squoiare le carcasse degli animali) venivano spesso ricompensati con le parti meno pregiate delle bestie, il famoso quinto quarto che rendevano nelle loro cucine casalinghe dei piatti saporiti e nutrienti.
Tra questi la coda divenne il piatto principale, la “regina del quinto quarto”.
In origine preparata con lardo e gaffi(le guance) alla ricetta vennero aggiunti uvetta, pinoli e cacao amaro per rendere il piatto più appetibile alle classi benestanti e vendibile nei numerosi ristoranti che sorsero attorno al mattatoio in quel periodo.
La primissima versione della coda alla vaccinara sembra sia nata intorno al 1300(e c'è chi dice addirittuira nell'antica Roma) nel rione Regola, storicamente abitato da vaccinari a cui papa Pio V dedicò la Chiesa di San Bartolomeo, patrono dei vaccinari.
Coda alla vaccinara
E' 'na ricetta facile, ma vale
pe' praparà un tegame origginale.
Pijate un po de grasso de presciutto,
'no spicchio d'ajo e 'na cipolla trita,
fate er batuto e poi mischiate tutto
co'l'ojo der tigame che v'invita
a fallo frigge e, quando ch'è dorato,
giù er vino. Nun appena è svaporato,
subbito er pommidoro e, mano mano,
sellero, uva passa, 'na manciata
de pignòli, un ber pò de cioccolata
e mentre er condimento piano piano
se coce e s'insapora a foco lento
la coda ariva, e mò ve la presento.
Dar macellaro che ce fate spesa
fatevela fornì grossa e nutrita,
così nun solo viene più saporita,
ma ner tegame ve darà più resa;
tajateve li rocchi su misura,
poi giù, ner sugo, fino a la cottura.
Cottura giusta e, quello che più conta,
ch'er sugo nun sia tanto aritirato,
giusto de sale; e adesso l'invitato
se metta a sede che la coda è pronta.
Bon appetito! E mentre mangnate
pensate a la cucina de le fate!
Poesia di Cesare Simmi, (proprietario del ristorante “la cisterna” fino al 1948)
Rigatoni all'Amatriciana
La nascita dell’amatriciana avviene ovviamente con l’arrivo del pomodoro dall’America, verso il 1800 (prima era usato solo come pianta ornamentale) e quindi questo sugo è “figlio” della Gricia.
Prende il nome (come tutti sanno) da Amatrice, cittadina in provincia di Rieti.
Nell’800, nel rione Ponte (tra piazza Navona e ponte S. Angelo) esisteva un vicolo chiamato de’ matriciani, dove i Grici (popolo della Sabina) tenevano mercato, vendendo prodotti tipici dei monti sibillini (pane, pecorino, salumi…) per terminare la mattinata di lavoro in una locanda chiamata “l’amatriciano”.
Da allora e fino all’inizio del ‘900 la popolarità di questo piatto rimase indiscussa a Roma, tanto che parecchi osti presero l’appellativo di matriciani per indicarne la professione.
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